COVID19

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  Nei nostri incontri si parla sempre molto di quanto la realtà digitale abbia modificato il modo di stare in relazione con l’altro. Spesso si recrimina agli smartphone e ai social un inaridimento delle relazioni per come le abbiamo sempre conosciute. Negli ultimi ormai 3 mesi invece siamo stati catapultati in una realtà dove proprio quello  smartphone/pc e quei social sono diventati l’unico modo per mantenere le relazioni siano esse lavorative, scolastiche o amicali. 

Le restrizioni che ci sono state imposte per contrastare il virus hanno infatti avuto effetti notevoli sulle nostre relazioni e sul nostro personale modo di stare in relazione con l’altro in primis ad esempio il fatto che sia stato qualcuno di esterno a noi che ci abbia detto chi  “potessimo frequentare e chi no”. Tra coloro che hanno sentito questo “divieto” più di altri sono stati gli adolescenti che, per la loro fase di crescita, si pongono sempre in modo molto forte di fronte ai divieti. Gli adolescenti sono stati infatti costretti ad abbandonare repentinamente tutto ciò che in qualche modo li caratterizza a livello relazionale: i pari. La costrizione di stare in casa con i propri genitori e lontani dal gruppo dei pari è come una specie di paradosso relazionale in quanto avviene  proprio in un periodo della loro vita  dove succede il contrario.Si è chiesto agli adolescenti nello specifico di essere responsabili, di sacrificare la propria libertà, di fare tanta fatica ma soprattutto si sono messi dei divieti in un momento storico dove difficilmente fino ad ora era stato fatto. Così tutto ad un tratto hanno dovuto rinunciare alla loro routine, alla loro spensieratezza e hanno dovuto confrontarsi con la frustrazione di non poter avere e fare quello che vogliono. Non è stato facile, nè per loro, nè per i genitori, alle prese anche loro con lo stress che questa situazione ha creato. 

In un’indagine di “Giovani e Quarantena”, promossa dall’Associazione Nazionale Di.Te.(Dipendenze tecnologiche, Gap, Cyberbullismo) in collaborazione con il portale Skuola.net, i ragazzi interpellati hanno riferito di un  peggioramento dei rapporti con i familiari. La situazione di convivenza forzata ha portato a problemi nella gestione degli spazi domestici, a confrontarsi con la difficoltà nel garantire una giusta privacy per tutti. E i ragazzi se non trovano uno “spazio di ascolto aperto”, faticano a condividere le loro emozioni con i genitori, tendendo a creare un muro ancora più alto da superare. 

 

Questa fatica è ovviamente bilaterale; dall’altra parte ci sono infatti i genitori con tutti i problemi sollevatesi in questo periodo e che hanno di fronte a loro la sfida di condividere con i propri figli adolescenti; il senso di fatica e la sofferenza derivante da questa terribile condizione. “Non serve rimuovere preoccupazioni e dolori ma saperli gestire insieme” come afferma Matteo Lancini psicologo e psicoterapeuta esperto di adolescenza. Per contrastare il  distanziamento sociale e la paure che questo periodo ha portato a galla ci vuole una vicinanza emotiva profonda che porti ad un dialogo aperto e non a un giudizio netto.Questo principio vale in realtà non solo per la fascia degli adolescenti ma per tutti. Ovviamente, oltre che con i loro adulti di riferimento, i bambini e gli adolescenti (ma non solo!) hanno anche modificato il loro modi di interagire tra loro. Se già prima del virus, la relazione reale era considerata da molti, “bisfrattata”, dalla relazione virtuale, oggi è stata completamente rimpiazzata. Come ci  ricorda Lancini: “si vive onlife”. Il mondo reale, che per molti mesi è stato “chiuso fuori dalle nostre porte” è entrato solo attraverso il mondo della rete.

Ecco che quindi oggi, più che mai, il termine Social Network assume il suo vero significato: socializzare grazie alla rete. Proprio grazie a questa, i ragazzi hanno potuto continuare a relazionarsi con gli amici,  a mantenere i loro legami affettivi e in alcuni casi anche a conoscere gente nuova. Si sono intrattenuti, divertiti e fatti compagnia a vicenda; spronandosi e sostenendosi l’un l’altro.Come sostiene Alberto  Pellai, psicologo e psicoterapeuta, “dentro questo sacrificio c’è un allenamento alla vita; alle fatiche che spesso richiede, alle sfide da superare e alla possibilità di cambiare”

Infine un altro cambiamento relazionale, che interessa tanto i giovani quanto gli adulti è quella della relazione didattica. La DAD ha portato a modifiche anche nel rapporto insegnante-alunno, insegnante- genitore e alunno-genitore. Si pensi solo al fatto che durante le lezione, specialmente dei più piccoli, il genitore è presente. Per quanto distanti è come se alcuni muri si siano abbattuti. Se si pensa ad esempio alle scuole di secondo grado dove la relazione è fondata su una certa distanza relazionale tra prof-alunno con la DAD questa distanza si è come ridimensionata. Insegnanti e alunni hanno dovuto condividere spazi personali e fino al quel momento, inavvicinabili; entrando reciprocamente nelle case dell’altro. Spesso nelle lezioni sono interferiti momenti di vita quotidiana e si sono scoperte informazioni  che magari non si avevano (componenti della famiglia, grandezza della casa, tenore di vita…). Molti insegnanti hanno mostrato un lato “più umano” e si sono trovati ad affrontare anche con i più piccoli,  paure e preoccupazioni legati al Coronavirus.

Ognuno di noi quindi ha avuto una rivoluzione delle proprie relazioni, la mancanza reale e l’essere posti più che mai di fronte allo scegliere di coltivare anche in questo periodo delle relazioni ha detto  molto sia di noi, sia delle relazioni in cui siamo. Alcuni hanno ridimensionato molto il proprio mondo relazionale, alcune persone hanno riscoperto dei rapporti dati per scontati, altri hanno chiuso delle  relazioni, altri ancora le hanno plasmate sulla situazione.Per molti invece questo periodo è stato un periodo di profonda solitudine, cercata o meno, che sta ora aprendo diversi scenari. Per alcuni adolescenti  infatti l’essere stati tolti dalle relazioni ha avuto anche un effetto “rassicurante” specialmente per chi era vittima di bullismo, di prese in giro e di chi nelle relazioni sociali fa fatica. Per questi ragazzi il rientro  alla relazionalità reale sarà un passaggio molto delicato e dovremo essere noi adulti ad avere la sensibilità di aiutarli e accompagnarli in questo.


AUTRICI: Dott.sse Ventura Nicole e Sedini Stefania

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Oggi tutti noi siamo dietro ad uno schermo, lo siamo da più di due mesi. La stanza e lo schermo sono stati in questo periodo la nostra finestra sul mondo, sono stati i mezzi con cui abbiamo potuto imparare, lavorare, relazionarci con amici e parenti, con cui abbiamo potuto giocare o restare informati. Ognuno di noi ha inevitabilmente aumentato il tempo passato dietro a pc o smartphone e ha dovuto, chi più chi meno, rivalutare e rivedere la relazione con essi. 

 

Uomo solitario e donna seduta e piangere sul pavimento che soffrono di depressione o rottura della relazione. Vettore Premium

Ci sono però delle realtà relazionali e sociali che già prima di questo lockdown hanno fatto dello schermo la loro finestra di vita e al contempo di ritiro dalla vita come tutti la intendiamo. Sono quelle persone, per lo più ragazzi, che per i più svariati motivi si sono allontanati pian piano dalle relazioni e dalla vita “reale” rifugiandosi invece in quella “digitale”. 

Il ritiro sociale è un fenomeno sempre più studiato e sempre più attuale; alla base di questa “soluzione” ci possono essere diversi fattori sociali, psicologici, storici e relazionali. Una visione ampiamente condivisa nel panorama psicologico riguarda il calare questo fenomeno nella realtà storico-sociale in cui è emerso. Spesso infatti i ragazzi che accettano di intraprendere un percorso terapeutico riportano come alla base ci sia in loro una profonda angoscia e paura di non essere all’ altezza delle richieste esterne, di fallire e di non percepire una sicurezza nel futuro. Spesso sono ragazzi fragili, a volte vittime di bullismo, con risorse personali poco sostenute. Alcune volte sono ragazzi che si trovano incastrati tra un’idea molto elevata di ideale di sè e di come e cosa si dovrebbe fare e un’angoscia profonda di non farcela. Pian piano, quasi senza accorgersene, si crea in loro l’idea che effettivamente non riescono; non sono degni o in grado e che il mondo là fuori è troppo. Troppo richiedente, troppo veloce, troppo pauroso. Che il futuro fa paura, è incerto, minaccioso e impensabile. Pian piano trovano nel ritiro sociale l’unica via, l’unica soluzione per farcela. Succede così che talvolta repentinamente o in altre gradualmente, alcuni ragazzi si “tirano fuori” dalla propria vita: la chiudano fuori dalla porta. Si smette di uscire con gli amici, si abbandonano gli sport, la scuola fino a rinchiudersi totalmente in un proprio mondo, la propria stanza. 

Le persone in quarantena a causa della diffusione del coronavirus Foto Gratuite

Il ritiro estremo è un fenomeno nato e studiato in primis in Giappone e i ragazzi che lo vivono vengono definiti Hikikomori. “Sono giovani che soffrono di un acuto isolamento sociale non derivato da altre malattie psichiatriche”. Hanno difficoltà comunicative e relazionali; tendono a evitare contatti anche con i propri genitori. Questa loro mancata socialità, li incastra in un circolo vizioso, dove non riescono a superare le difficoltà delle relazioni e della paura dell’altro.

L’unico modo per agganciare, e non sempre in modo così semplice, questi ragazzi è proprio attraverso i mezzi digitali, tramite le chat o i consulti online. La tanto oggi citata DAD è ad esempio l’unico modo che si è trovato nel tempo per poter garantire la scuola a questi ragazzi. Dietro lo schermo l’ansia sociale si abbassa, non si hanno gli sguardi puntati e c’è la percezione di quel distacco sicuro che permette in alcuni casi di “uscire” e stare in quella relazione. In questi mesi in cui la DAD è diventata una realtà nazionale, in alcune situazioni è stata la via per un’apertura in più. Alcuni ragazzi ritirati socialmente da tempo, si sono sentiti “più sicuri” e hanno accettato di seguire le lezioni non da soli ma insieme ai compagni, ritrovando così le vecchie amicizie e “inserendosi nuovamente” nel sociale. 

In questo periodo di quarantena forzata, come ha affermato Matteo Lancini, uno dei maggiori esponenti in questo tema, “siamo tutti dei ritirati sociali”. Infatti siamo tutti stati costretti a permanere nelle nostre case, avendo poca o nessuna interazione sociale, e abbiamo vissuto sentimenti di disagio e solitudine, legati a questa condizione. Questo stop ha avvicinato in qualche modo i due mondi: chi prima era fuori ha avuto un arresto e ha dovuto farci i conti, chi era ritirato invece per certi versi ha sentito meno pressione perchè tutti in qualche modo stavano fermi. 

 

Immagine gratuita di a casa, a casa da solo, appartamento, bella casa  In questi due mesi è come se il ritiro sociale si fosse normalizzato, come se il rallentare fosse qualcosa di legittimo. Ora, che tutto si sta invece ri-riorganizzando molti stanno sentendo una forte preoccupazione e ansia nel “tornare alla vita di prima” e questo può far pensare molto. 

Nello specifico sono i ragazzi e gli adolescenti a vivere questo divario: da una parte la voglia di vedere gli amici, dall’altra la paura e l’angoscia di quella che sarà la “nuova normalità”. In una recente ricerca di “Giovani e Quarantena” promossa dall’Associazione Nazionale Di.Te. in collaborazione con il portale Skuola.net, si evidenzia come tra i giovani intervistati, i timori e le preoccupazioni siano legate alla difficoltà di immaginarsi un domani. 

   Come sottolinea Giuseppe Lavenia, psicologo, psicoterapeuta e Presidente dell’Associazione Nazionale Di.Te :”I ragazzi, in questo momento di isolamento, non hanno certezze, non riescono a sognare come sarà il loro domani”. Il rischio è quindi quello di avere giovani apatici, senza “spinta” e motivazione. 

 

 

Come poterli aiutare?

Innanzitutto bisogna sostenerli e stargli vicino. Il ruolo dei genitori in questa fascia è molto importante anche se complicato, è un gioco continuo di equilibri. Come dice Beppe Severgnini: “durante l’adolescenza, per i ragazzi, i genitori sono come i mobili di casa: non ci si pensa sempre, ma è bene che non vengano spostati”. E’ quindi indispensabile che i genitori vengano percepiti come luogo sicuro in cui rifugiarsi quando il ragazzo ne avverte bisogno, come coloro che nonostante tutto ci sono e sono pronti ad aiutarli. Ogni ragazzo, ogni famiglia è però un mondo a sè stante, ognuno ha delle sue peculiari caratteristiche e modalità di vita. Tuttavia ci sono dei campanelli di allarme come delle  modifiche importanti nel comportamento (es. forti scoppi di rabbia, chiusura sempre maggiore alla realtà esterna etc), sintomi di ansia e/o depressione (apatia, anedonia, mancanza di sonno o ipersonnia, mancanza di fame etc) che permangono nel tempo,potrebbe essere utile richiedere un parere psicologico per comprendere meglio cosa sta accadendo e trovare delle soluzioni al problema. 

 

AUTORI: Dott.ssa Sedini Stefania

             Dott.ssa Ventura Nicole

 

riferimenti:

--> https://www.psicologiacontemporanea.it/blog/hikikomori-un-problema-globale/?utm_source=facebook&utm_medium=social&utm_campaign=facebook_pc&utm_content=link&fbclid=IwAR0s6p0j7XjPa3XY6u4vKpRYYuGWzUbKrjlBHtRCtUw67OE1dPRNQBfLZJw

--> https://www.affaritaliani.it/cronache/coronavirus-ansie-rapporti-incrinati-ora-i-teenager-hanno-paura-del-futuro-669308.html?fbclid=IwAR2JmcEivlbT8qqmkXvhh9rs-wa-5qwbL8VJPMEEkMHFnxf1FE1-WUfq7C8

 

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  “Ed è così che il tempo personale si fonde con quello lavorativo perchè non c’è niente di smart, è solo telelavoro”

(Bosio)

 


 

Smartworking. Una realtà complessa, a volte tanto desiderata altre tanto temuta dai lavoratori ma mai, come in questo periodo, sta prendendo vita e si sta articolando nei più svariati modi colorandosi di diverse sfaccettature. Sicuramente parlare di smartworking non vuol dire la stessa cosa per tutti, pur essendo un termine utilizzato per di più nelle aziende oggi tocca molti più realtà lavorative che si sono trovare a reinventarsi e a ricalibrare tutto davanti allo schermo. Smartworking inoltre oggi nel parlar comune viene utilizzato per indicare il lavoro a casa ma in realtà smartworking e telelavoro sono concetti ben diversi.

Il primo a nascere a livello temporale è il telelavoro, siamo negli Stati uniti negli anni 70 durante la crisi petrolifera quando viene varato dal governo la possibilità di  “telecommuting” ovvero spostare i dati anziché far spostare le persone. Si basa quindi sull’idea di un lavoro da remoto rigido in cui il dipendente ha una postazione fissa, ma dislocata in un luogo diverso dalla sede aziendale mantenendo però tempi, modalità, responsabilità  uguali a quelli aziendali. 

Nel tempo partendo da questo concetto le aziende e i lavoratori si sono trovati di fronte alla necessità di una maggiore flessibilità e mobilità garantita invece dallo smart working. Il lavoro agile (o smart working) è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro caratterizzato dall'assenza di vincoli orari o spaziali e un'organizzazione flessibile, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro. Nasce come  modalità lavorativa che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività. La definizione di smart working, contenuta nella Legge n. 81/2017, pone l'accento sulla flessibilità organizzativa, sulla volontarietà delle parti che sottoscrivono l'accordo individuale e sull'utilizzo di strumentazioni che consentano di lavorare da remoto (come ad esempio: pc portatili, tablet e smartphone). 

https://www.informazionefiscale.it/smart-working-telelavoro-guida-alle-differenze

https://www.lavoro.gov.it/strumenti-e-servizi/smart-working/Pagine/default.aspx

 

Fatta chiarezza su questi due aspetti e termini però resta indiscusso che specialmente in questo periodo sono tante le aziende, i privati, le scuole, i centri, le figure sanitarie etc che hanno dovuto attingere a queste formule e reinventarsi destreggiandosi tra limiti e potenzialità, tra esperienza e novità, tra direttive dall’alto o creatività personale. 

 

                                                                                             

 

In modo ironico, ascoltando racconti di amici, storie e riflessioni di pazienti, leggendo post sui social o sentendo le trasmissioni si può provare in modo arbitrario a tracciare dei “modelli di home worker”, siano essi in smart working o telelavoro.

                                                                                                            

“L’home worker pentito”

Colui che non ne può più, che sogna le corse al treno, lo schiacciamento in metro, il caffè della macchinetta, il caos della mensa aziendale, la sigaretta coi colleghi, il rumore delle macchine in ditta e il ritorno a  casa tardi quando tutti già dormono e i compiti sono stati fatti. Sono generalmente coloro che, prima di questo periodo venivano chiamati da amici e parenti i dipendenti dal lavoro, i workaholic, quelli che non si stancano mai e non si fermano mai neanche la domenica. Ora però chi più chi meno si sono dovuti fermare. Hanno dovuto rallentare e modificare la propria work routine e non è stato semplice perchè in un modo o nell’altro ha portato a chiedersi chi si è al di là del proprio lavoro. 

 

“L’home worker col pigiama”

Sono coloro che da questo lavoro a casa si stanno prendendo il meglio tanto da pensare a un part time nel futuro. Sono quelle persone che, contro tutte le loro previsioni, hanno rallentato e che hanno scoperto che non fa così paura, che hanno colto che oltre al lavoro di 10 ore c’è un mondo, ci sono loro. C’è lo stare in pigiama, in termini simbolici ma non solo! Ci sono genitori che, con tutta la fatica del caso, stanno conoscendo di più i loro figli, che stanno vedendo cosa fanno a scuola e che riescono a  giocare con loro senza la stanchezza estrema della giornata. Ci sono persone che stanno scoprendo i tempi diversi, che riescono a inserire dell’attività fisica, che non fanno le pulizie alle 22 di sera e che hanno scoperto Netflix. Ci sono persone che nonostante l’assestamento iniziale hanno dato a se stesse l’opportunità di stare in un modo un po’ di diverso dal solito con sè stesse e con gli altri e che all’idea di tornare al lavoro come prima una lacrima la versano.

 

“L’home worker in altalena”

E' colui che ancora non sa bene se gli piace oppure no e quindi sta, sta nell’altalena emotiva che comporta l’aver rivoluzionato la propria giornata e i propri ritmi, sta che nel multitasking ora c’è anche fare l’insegnante per i figli o il casalingo disperato, sta nell’avere orari diversi o non averne proprio. Sta nel destreggiarsi con smartphone che ad una certa ora del giorno scottano, con il pc tra le call e le videolezioni, tra una mail e un gioco con i bimbi. Oscilla insomma tra su e giù, riesco e non riesco, tra il “che bello fosse sempre così” e il “aiuto quando finisce!”. 

 

“L’home worker da zero”

Sono coloro che di per sè non fanno lavori aziendali, non hanno programmi e pc davanti agli occhi nel loro lavoro quotidiano ma sono coloro che lavorano con le persone e che oggi si son trovate di fronte a uno stop tosto. Uno stop che li ha posti di fronte a un bivio: aspettare e vedere o reinventarsi e provare. Entrambe le posizioni richiedono coraggio e sacrifici.  C’è la paura di fallire, la sensazione di annegare, la fatica di reinventare, il dolore di accettare che il proprio lavoro non è più come prima, un rimettersi in gioco che tocca sia le proprie risorse sia le proprie debolezze. 

 

Queste sono classificazioni, vignette frutto  di racconti di amici, storie ascoltate, sedute con i pazienti e punti di vista. Ciò che conta però alla fine è come ognuno di noi si sta vivendo questo cambiamento nel mondo del lavoro, del proprio lavoro. Quali pensieri, emozioni, fatiche, aspettative, paure, scoperte, rinunce e conquiste sta portando con sè questo momento senza giudicarle giuste o sbagliate ma semplicemente proprie e, se si ha voglia, chiedersi il perchè di questi vissuti, chissà che si scopra qualcosa di nuovo di noi stessi!

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Covid-19 ha sicuramente stravolto la vita di tutti, obbligandoci a cambiare le nostre abitudini, costringendoci a rimanere chiusi in casa, limitando molto le nostre interazioni sociali.

Come primo aspetto sicuramente da sottolineare è che tra tutti i momenti storici in cui poteva capitare, l’essere accaduto durante “l’era digitale” ci sta aiutando ad affrontare e superare alcune di queste barriere. Come spesso diciamo nei nostri incontri, l’avvento di Internet ha i suoi pro e i suoi contro e tra i suoi pro, sicuramente la possibilità di essere collegati anche con chi è fisicamente distante”, è la potenzialità che più di tutte si sta attivando ora. Infatti attraverso le diverse piattaforme e i diversi Social Network adulti e bambini stanno riuscendo a “tenere i contatti” (con chat, videochiamate) a “ricrearsi una routine (come nel caso delle scuole che ha attivato le video-lezioni) e a “fare comunità (con video, challenge, raccolte fondi ecc).

 

 

Per questi aspetti, l’uso di internet durante il Coronavirus sta sicuramente avendo i suoi risvolti positivi, aiutando ad apprezzare quegli aspetti della Rete, che spesso venivano eclissati. Come però spesso accade, ci sono sempre “due lati della medaglia”; quindi accanto alla potenzialità e all’utiltà di Internet, ci sono anche aspetti potenzialmente dannosi.

 

Una prima riflessione per capire se i ragazzi stanno usando il Web in modo positivo o meno, è osservarli. La quarantena, sta obbligando la maggior parte dei genitori a “stare” con i propri figli e per qualcuno, a conoscerli. Quale occasione migliore per prestare attenzione alla loro relazione con Internet, e magari dedicare del  tempo a parlarne insieme, per capire non solo quanto lo usano, ma anche e soprattutto come?. Lo usano per interagire con i loro amici? Passano tutto il tempo su Tik-Tok? (Social Network dove prevalentemente si fanno balletti, scherzi ecc.) usano i videogiochi e mentre lo fanno dicono parolacce, imprecano?. Sembra una banalità, ma durante i nostri incontri, quello che noi facciamo è proprio partire da loro, facendo domande, per capire il loro rapporto con il mondo Internet e molto spesso capita di sentire, anche dai genitori stessi, che per la maggior parte del giorno non sono a casa e non li vedono, che non sanno dare risposta a queste domande.

Detto questo, che è base imprescindibile per poter capire e nel caso intervenire, si è sempre soliti giudicare l’appropriatezza o meno del rapporto minore-Internet, basandosi sul tempo di utilizzo, ma in questo ancora di più, questo non è possibile e poco utile, perchè oggi, come dice il medico e psicoterapeuta dell’ età evolutiva Alberto Pellai “l’online è la porta sul mondo” che prima veniva considerato come fattore di rischio perchè allontanava dalla vita reale e quindi limita dall’acquisizione delle competenze di vita, mentre oggi “ha consentito una buona qualità della vita”.

Per questo motivo, la  variabile principale da osservare, oggi più che mai, è l’utilizzo/uso che i ragazzi fanno della rete. Infatti anche la stessa Dipendenza da Internet, (patologia riconosciuta dal DSM- IV) è difficile da definire sulla sola variabile del tempo  vista l’attuale necessità della Rete.

Per questo bisogna osservare lo scopo con cui il minore usa Internet. Se è per scopi didattici (ricerche, video lezioni) o sociali (telefonate con amici, videochiamate, chat...). Stessa cosa se pensiamo all’uso del tablet per i bambini più piccoli. Un conto è far vedere un video in solitudine che “lo tiene incollato” e lo estranea, diverso è se l’uso è condiviso con il genitore e serve per offrire stimoli e quindi attivare (come nel caso dei tutorial o dei video delle insegnanti o dei video balletti).

 

E’ quindi l’uso solitario di Interne che merita attenzione, come nel caso dei videogiochi, molto utilizzati soprattutto dai maschi; dove spesso si rintanano e passano gran parte della giornata. Per come sono strutturati i nuovi videogiochi, essi sono affascinanti e gratificanti con “un potere immersivo” come dice Alberto Pellai. Inoltre se osservati i ragazzi, molto spesso entrano in un loop dove staccarsi è difficile e dove le emozioni di rabbia “vengono fuori” con parolacce, aggressività, che si manifesta spesso anche quando si chiede ai bambini di smettere di giocare. Con delle vere e proprie crisi di rabbia. Questo risvolto negativo dei videogiochi, è stato analizzato anche dalla psicologia, e l’OMS ha infatti riconosciuto il “Gaming Disorder” come una forma di dipendenza che caratterizza il mondo contemporaneo.

E’ quindi importante anche in questo momento, poter stabilire delle regole per l’utilizzo di Internet. Regole che, come spesso sottolineiamo nei nostri incontri, vanno negoziate; definendo orari e tempo di utilizzo (magari avvalendosi di un timer). Inoltre soprattutto con i ragazzi di medie e superiori è bene concordarle, sentendo la loro opinione, le loro esigenze e responsabilizzarli ad un uso consapevole.

 

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Novità in arrivo...

 

 

Ci siamo presi del tempo, abbiamo ascoltato, letto, guardato. Abbiamo cercato di dare un senso e di trovare le domande dentro di noi.

Abbiamo deciso di partire da noi, da ciò che in questi anni il nostro progetto ci ha fatto incontrare e da ciò che le nostre formazioni e i nostri lavori ci fanno toccare.

Abbiamo scelto di proporre alcuni brevi riflessioni sull’intreccio che questo periodo particolare sta avendo con la digitalità, con quello schermo tanto discusso, vietato o abusato ora diventato il canale per eccellenza per tutti noi tra pregi e difetti, tra potenzialità e pericoli.

Oggi quello schermo è infatti ciò che ci sta permettendo di lavora e, studiare e viverci.

Come diciamo sempre nei nostri incontri però non bisogna dare per scontato il suo utilizzo e la sua utilità ma bisogna porvi un pensiero critico altrimenti il passaggio dal potenziale al pericoloso è molto rapido specialmente quando l’utilizzo è dettato dalla noia o dall’estremo bisogno, due dimensioni che oggi caratterizzano più che mai questo utilizzo.

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Alcune anticipazioni...

- Docenti e web, una scuola digitale. Quando lo schermo diventa cattedra.

-Minori, web e coronavirus quali potenzialità e quali pericoli?

e molto altro    

 

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 “Cosa vuol dire per me insegnare online?”

Un possibile punto di partenza per le insegnanti che in questo periodo di sono ritrovate sbalzate fuori dalle cattedre e poste di fronte a uno schermo a fare didattica a distanza può essere proprio il domandarsi cosa significa per loro. Fermarsi un attimo e chiedersi:

 

Chiedersi queste cose è importante perchè permette di dare un proprio senso alla cosa, di essere un po’ più consapevoli delle fatiche e delle risorse per affrontare una richiesta tanto improvvisa quanto necessaria. Può aiutare ad alleggerire un mandato molto particolare e di forte cambiamento rispetto al proprio lavoro storico, alla propria immagine di insegnante e anche alle aspettative su di sè e sui propri alunni. Può infine portare anche a vedere più chiaramente le potenzialità e i pericoli che questa modalità sta comportando sia da un punto  vista relazionale che legale. 

                                                                                            

 

In pochissimo tempo la scuola italiana ha dovuto fare un balzo nella tecnologia, ha dovuto interfacciarsi con la richiesta di trasformarsi. 

“Si ma la prof non sa neanche accendere il pc”

“Le maestre ancora non hanno fatto le videolezioni” 

“Va beh io faccio andare ma basta fare così e così e gioco alla play mentre la prof parla”

Questi sono alcuni dei feedback di alunni di diverse età che danno però un primo assaggio di quanto, specialmente i primi tempi, le insegnanti hanno dovuto affrontare: il gap del digitale. Gli alunni d’oggi sono nativi digitali, a 2 anni avevano già  probabilmente in mano un tablet, per loro il digitale inteso come modalità per fare qualcosa insieme a qualcun altro (social, videogiochi online etc) è scontato. Non colgono però che per la maggior parte delle loro insegnanti  non lo è, specialmente se, oltre alla fatica del digitale, c’è anche la fatica di una burocrazia legale, di una tempistica ufficiale, di un programma da portare avanti, di una valutazione da garantire, di un         monte ore da fare, di un reinventare un modo di fare didattica e molto altro. Essere insegnanti ai tempi del Covid-19 insomma è ancora più complesso del solito. 

 


Ogni scuola, ogni fascia d’età, ogni materia, ogni classe  ha inoltre delle sue caratteristiche peculiari che non reggono su un discorso generico. Fare DAD in prima elementare dove il bambino sta ancora imparando ad orientarsi nel mondo della scuola primaria non è la stessa cosa di farla in una classe quarta, lo stesso vale per le scuole di grado superiore. Nell’infanzia la questione è ancora più complessa e sfaccettata.Generalizzare una modalità di fare DAD quindi rischia di non poter cogliere le singolarità di ognuno, rischi e risorse, fatica e bellezza. Lo stesso vale per le singole classi all’interno di un contesto scolastico e ancor di più per i singoli alunni. 

Sono sempre di più nella scuola italiana gli alunni con una certificazione diagnostica che va dai DSA (disturbi specifici dell’apprendimento), ai disturbi più comportamentali (es. ADHD, DOP etc.) a ritardi nello sviluppo (autismo, ritardi linguistici etc.) e questo scenario come nella scuola “reale” si è mantenuto anche in quella “virtuale” con non pochi ostacoli. 

Però, c’è un però, nonostante tutta questa fatica, questi ostacoli, ci sono svariati aspetti di creatività e di crescita che danno a questa DAD un sapore buono, un sapore di qualcosa che forse alla scuola serviva.  Alcune insegnanti si sono trasformate, hanno veramente messo in gioco loro stesse per reinventarsi e per uscire da degli schemi storici, forse comodi per un certo verso, dello stare dietro alla cattedra. Hanno fatto video, mandato messaggi, hanno ribaltato una concezione classica di didattica. Alcuni insegnanti hanno visto dei grandissimi cambiamenti negli alunni e hanno colto la possibilità di un rapporto più breve ma maggiormente personalizzato di didattica che ha permesso anche di nutrire un legame personale e affettivo con l’alunno. Alcune classi si sono paradossalmente unite nello stare lontane, sono riuscite a sentire quei legami come qualcosa di importante che va nutrito. 

Nessuno sa come sarà la ripresa della scuola ma un augurio credo che sia quello di poter prendere la generatività che la DAD ha portato con sè e riuscire a trasformarla anche nella “scuola classica”.